Siamo in Bénin da qualche giorno e abbiamo iniziato tutte le attività.
Tantissimo da organizzare, poco tempo per comunicare con chi è rimasto a casa e aspetta notizie.
Ci stiamo dividendo tra chi lavora in ospedale, in sala operatoria, in sala parto o in ambulatorio.
L’accoglienza del personale sanitario è stata calorosa e l’accettazione da parte delle donne di essere curate dai bianchi è vista da qualcuna di loro con diffidenza, ma dalla maggioranza come una risorsa.
L’ostacolo della lingua è facilmente superabile con l’empatia che le nostre ostetriche hanno, sono amorevoli e bravissime, così riescono ad entrare in relazione.

Abbiamo iniziato a distribuire il materiale portato e ad acquistare cibo: 500 kg di riso e 200 kg di pasta, per ora.
Il caldo cocente dell’harmattan ci travolge e ogni azione è rallentata, ma grazie al cielo abbiamo acqua per lavarci e un letto su cui dormire, mentre i bambini che incontriamo non hanno questo privilegio.
Stamattina abbiamo conosciuto i bambini sordomuti, che a causa della loro disabilità non restano in famiglia, perché considerati un peso, una vergogna, così vivono in questo piccolo centro che provvede a loro, con mille difficoltà.
Ci hanno accolto con il linguaggio dei segni e noi, maldestramente, abbiamo provato a comunicare con loro.
Un altro pugno allo stomaco, un nodo alla gola che non si scioglie quando ci hanno salutato con grazie mamma, grazie papà, le dita ad inviare un bacio e la mano aperta sul mento.

Nel pomeriggio abbiamo distribuito pacchi alimentari ad un intero villaggio e ci portiamo negli occhi e nei cuori la gioia incontenibile di piccoli e adulti che hanno ricevuto il cadeau di Natale.
Si perché, il piatto di riso è un privilegio per le occasioni speciali.
Non abbiamo molto tempo per rispondere ai tanti messaggi, ma soprattutto, siamo tutti immersi in questa realtà durissima.
Goccia a goccia, in punta di piedi, capanna per capanna…